TESSOFORME

La mia attività artistica comincia già da giovanissimo con la frequentazione, negli anni ’70, della Scuola di Arti e Mestieri Leonardo da Vinci di Prato, proseguita poi con gli studi presso il Liceo Artistico di Firenze, dopo del quale iniziarono le mie prime mostre.

Il mio impegno in campo artistico è stato in realtà discontinuo, caratterizzato da periodi di forte attività, inframmezzato da lunghissimi periodi di silenzio, nella convinzione che quando si ha poco o niente da dire è meglio tacere.

Nei primi anni ’80, dopo gli oli dilettantistici, prodotti fin da quando avevo undici anni, i miei lavori erano essenzialmente costituiti da disegni di piccole dimensioni, prevalentemente realizzati a china ed acquerello, in cui indagavo la forma umana in chiave strutturale, associandola spesso ad elementi architettonici.

Nell'evoluzione di tali opere grafiche cominciai ad essere particolarmente affascinato dalla trama di segni che generavano queste figure. Come ogni artista, infatti, ero interessato ad indagare il momento che precede la vera e propria creazione della figurazione, quando il foglio bianco intimidisce, e non si ha il coraggio di romperne l'immacolatezza, rimanendo temporaneamente annichiliti di fronte a tutte quelle operazioni preliminari, in realtà automatiche, come la decisione di stabilire dimensione della figura che si ha in mente, la sua posizione nel foglio, le sue proporzioni, la sua struttura, ecc. La mente razionale, in questo caso infatti, come spesso succede, invece di essere d'aiuto, rallenta l'azione creativa.

Da qui l'idea di "aggredire" direttamente il foglio, con una sorta di gesto compulsivo, cominciando a realizzare un groviglio di segni, ottenuto senza quasi mai staccare la penna dalla sua superficie, il quale addensandosi in aree sempre più circoscritte dava luogo alla forma, conferendogli una sorta di tridimensionalità. L'intento era infatti quello di escludere, in qualche modo, la mente razionale, non permettendole di inserirsi, in eventuali pause riflessive, nel gesto continuo che, automaticamente in una forma quasi inconscia, generava la figura.

Dopo aver indagato tale tecnica, con opere più articolate, a cui nel frattempo si erano aggiunti anche alcuni interventi pittorici, derivati da contaminazioni con il contemporaneo mondo del design, a metà degli anni ’80, cercai di dare una reale tridimensionalità a questa mia ricerca, scoprendo che la rete metallica, volgarmente detta anche "rete da polli", ben si adattava allo scopo, costituendo una sorta di “foglio tridimensionale”, su cui trasportare quel grovigliodi segni, che si concretizzava adesso in un sottilefilo metallico, che tanto mi aveva affascinato bidimensionalmente.

In queste primissime sperimentazioni cominciava anche ad attrarmi la vacuità della forma realizzata, in quanto, il filo circoscriveva nello spazio, ancora meno che sul foglio, una porzione dello stesso, determinando in realtà un forma vuota, privata sia della sua massa interna, che di una reale superficie, risultante permeabile allo sguardo che l'attraversava. In definitiva si trattava solo un'allusione alla forma,la quale veniva contemporaneamente negata; concetto tanto più sottolineato dal fatto che su una parte dell’intreccio intervenivo anche con un leggero strato di gesso, creando una sorta di pelle parziale, riproducente in maniera iperrealistica la superficie dell'oggetto, realismo però poi immediatamente contraddetto dalla sua incompletezza.

Questa nuova tecnica, però, dopo le prime sperimentazioni, che mi portarono alla realizzazione di piccoli oggetti come una mela, (forma a cui sono rimasto particolarmente affezionato nelle mie sperimentazioni), rimarrà per oltre un decennio in incubazione, durante il quale non ho prodotto alcuna opera.

A metà degli anni 90’ l’incontro con alcuni designer fiorentini mi conferì una rinnovata vitalità, che mi fece riprendere il mio percorso artistico esattamente dove lo avevo lasciato dieci anni prima.

Nacquero così numerose opere, sempre di medio-piccole dimensioni, in cui approfondivo la tecnica della "pelle" parziale sulla forma vuota.

Fu però questo anche il momento del massimo exploit della tecnica della sola rete e filo metallico, che sperimentai fino ai limiti della stessa, producendo opere di discrete dimensioni come il virtual portrait, un autoritratto alto mt. 1,40, in cui testavo una serie di tensioni del materiale, risolte sulla superficie della forma, che permettevano alla scultura, assolutamente inconsistente, di non afflosciarsi su se stessa. Nacque cosìl’idea delle tessosculture, parola ove quel “tesso” alludeva contemporaneamente alla natura quasi tessile della superficie, ma anche alle tensioni che su essa si esercitano, parafrasando le tensostrutture del mondo delle costruzioni.

Dopo una serie di mostre, sia personali che collettive, la mia attività artistica rallentò nuovamente, mentre abbandonavo la tecnica della pelle parziale, per tornare all'originaria sperimentazione sulle forme completamente vuote. Il vuoto e ciò che esso "conteneva" mi affascinava e quindi l’indagine si spostò, anche da un punto di vista concettuale, in questa direzione. Fu cos’ che nacquero opere come la gabbia magica: una vera gabbia per polli, le cui pareti hanno, idealmente, la facoltà di far materializzare alcune forme sia interne che esterne ad essa.

Iniziò quindi un altro lungo periodo di silenzio, durato circa quindici anni, quando improvvisamente, qualche anno fa, ho sentito nuovamente la necessità di riprendere il discorso interrottosi molti anni prima. Questa volta però il problema che mi assillava, che in realtà era rimasto irrisolto fin dalle prime sperimentazioni, era quello di lavorare liberamente nello spazio, con quel segno mutuato dalle mie prime figurazioni bidimensionali, senza l'ausilio di alcun supporto di base, come appunto la rete da polli. Ho quindi provato nuovamente a sperimentare l'idea sulla mia forma preferita, la mela, che ho realizzato questa volta con un materiale più nobile: un filo di rame. Materiale che mi affascina, sia per la sua duttilità, che per la sua caratteristica di alterarsi nel tempo, fino a produrre degli splendidi ossidi, che in seguito ho anche cercato di indurre artificialmente.

Su questa nuova fase hanno inciso anche altre esperienze, che nel frattempo avevo maturato, seppur apparentemente assai diverse, come quella della storia della produzione, soprattutto del pratese, da cui ho mutuato due antiche produzioni locali, come appunto quella del rame e quella dei tessuti.

Ma se con la nuova tecnica appariva relativamente semplice controllare forme di piccole dimensioni, rimaneva ancora l'estrema difficoltà di affrontare forme più grandi, senza poter più contare su un supporto di base, tenuto anche conto della labilità di un sottile filo di rame.

Nel tentativo di trovare una soluzione a tale nuova sfida mi sono quindi cimentato per la prima volta in una figura umana a dimensione naturale. Questa volta l'aspetto interessante del processo creativo è stato che, dopo una prima sbozzatura della forma di base, l'intensificarsi del groviglio portava ad ulteriori approfondimenti della figura, mentre da un punto di vista fisico, la sua consistenza veniva determinata da quella serie di mutue microtensioni superficiali, già sperimentate in precedenza, che nell'addensarsi ne aumentavano via via la resistenza.

Finalmente, dopo circa trent'anni, avevo quindi trovato la strada per trasporre nello spazio, come nel disegno, il groviglio di segni che determinavano la figura.

Con questa nuova tecnica sono infatti i fili-linee stessi, come nelle due dimensioni, a suggerirela coerenza formale, coinvolgendomi in un approccio sensoriale della materia, in realtà incorporea, sospeso tra l'atto cosciente della creazione e la mera esecuzione di un impulso, che sembra giungere direttamente dalla forma, e che in un certo senso si autodetermina.

Infatti, a causa dell'immaterialità della tecnica, spesso la figura assume configurazioni parzialmente diverse da quanto pensato inizialmente e, talvolta, con alcune distorture nelle proporzioni, che però sono testimonianza di questo particolare processo, costituito dall’incessante tentativo di controllare una forma inconsistente e sfuggente, che si sottrae continuamente ad una sua completa dominazione.

Il procedimento avviene infatti in maniera assai diversa dalla scultura classica, ottenuta per sottrazioni di pieni (marmo, pietra o legno) o per addizioni/sottrazioni (creta), essendo quasi una sorta di creazione semicosciente, a parte l'input iniziale, che mi porta a dar forma, in un processo in continua modificazione, ad immagini che sembrano essere già presenti nell'immateriale, e che io contribuisco solo a rendere manifeste.

Anche il successivo riavvicinamento ad una passione che avevo coltivato fin da adolescente, ovvero quella delle arti marziali, mi ha portato progressivamente all'approfondimento degli aspetti filosofici che sottendono queste opere, che a loro volta hanno influenzato, o meglio chiarito, il mio processo creativo. In particolar modo il concetto di vuoto, a cui la stessa filosofia zen fa continuo riferimento, come peraltro le arti marziali che ad essa si ispirano; basti pensare al karate, mia disciplina di riferimento, ove il termine “kara” significa, appunto, "vuoto".

Da un punto di vista concettuale, quindi, il principio artistico delle mie opere trova la sua motivazione in una sorta di teoria metafisica delle regole di funzionamento dell'universo, in cui filosofia orientale e le moderne frontiere della fisica, con la meccanica quantistica, si fondono, come ha dimostrato Fritjof Capra nel suo celebre libro, "il Tao della fisica".

La gestualità stessa con cui realizzo tali opere, in fondo, è fondamentalmente zen, nel suo ripetere un'infinità d'intrecci, che nel loro insieme danno luogo alla forma, ma che allo stesso tempo mi conducono ad uno stato di meditazione, o di una sorta di stato semicosciente in cui, mi piace pensare, prendono corpo le mie figure.

L'intreccio, inoltre, trae il suo effetto estetico anche dal principio del nodo, il quale rappresenta il passaggio alternativo sopra/sotto ripetuto all'infinito, in quanto forma chiusa su sé stessa, e che quindi, ancora una volta, riporta al concetto taoista dello yin e dello yang.

In questa logica, ho ripreso la ricerca iniziata con la gabbia magica, dove grazie ad un diaframma di rete alcune forme si materializzano, realizzando opere come sfera, profondamente influenzata dalla ricerca sul concetto di energia psichica, indagata da secoli nelle filosofie orientali, sia che si tratti del qi cinese o del ki giapponese. In questa opera mi ha infatti affascinato il tema della finestra, come elemento di transizione tra due realtà (interno/esterno) in grado di materializzare quattro mani incorporee, appartenenti a due ipotetici personaggi, forse esistenti sull'altro lato del diaframma, che trattengono una sfera altrettanto invisibile, che nelle discipline orientali rappresenta appunto l'energia del ki.

Nelle mie recenti opere, mi piace quindi immaginare che, le numerose linee che formano il reticolo, in realtà emulino la natura ondulatoria dell'energia che da' luogo ad ogni forma. Tuttavia queste evocano contemporaneamente l'immaterialità, non essendo costituite da vere superfici, ma solo forme suggerite dall'intreccio di linee, che la nostra mente ci restituisce come figurazione compiuta, che tuttavia lo sguardo può attraversare, e l’attenzione può depositarsi su ciò che si trova oltre, paradossalmente anche su di un'analoga forma posta dietro di essa, oppure entrambe fuse in una nuova inconsueta creazione che varia al variare del punto di vista o delle condizioni di luce. Se infatti investiamoqueste figure con una luce diretta, sarà evidenziata la loro trama superficiale, dandoci una percezione delle stesse estremamente materica, mentre se la luce arriva da dietro, si assisterà ad una loro dematerializzazione. Altrettanto interessante diviene anche l'osservazione indiretta, ovvero la proiezione del fascio di luce che le investe, che da' luogo, su di una superficie, a quell'intreccio grafico da cui molti anni fa sono partito.

E' quindi evidente che non esiste una percezione univoca di queste forme, la cui molteplicità è determinata, non da me che le ho create, ma dall'osservatore, da cui quindi potrebbe scaturire una sorta di nuovo atto creativo, il quale in base alla sua sensibilità e stato d'animo, può individuare nuove trame e suggestioni, dimostrando così, l'influenzabilità e la relatività della realtà.

Giuseppe Guanci