Lo scultore del vuoto

«La forma è vuoto e il vuoto è forma».

Sono i versi cardine del Sutra del Cuore della Perfezione della Saggezza. Scritti circa duemila anni fa, per illustrare la dottrina buddista della vacuità di tutti i fenomeni, questi versi trovano nelle opere di Giuseppe Guanci una felice germinazione, un’attualizzazione inedita, strabiliante,che tenta di dar corpo a quello che a noi occidentali appare un paradosso insolubile.

Educati nel regno della forma, da quando Platone ha collocato l’eidos (la forma intelligibile appunto) al centro

della cultura Occidentale facendone il presupposto stesso della conoscenza, è difficile per noi sospenderla,

accogliendo una simile equazione col vuoto, perché ci obbligherebbe a un ripensamento radicale, insopportabile, della nostra esperienza, del nostro mondo, del modo stesso di pensare, che poggia sulle idee come gli occhi sulla luce.

Anche l’idea di arte consegnataci dalla classicità ne è indissolubilmente legata. La sua tensione alraggiungimento del concetto di purezza ideale equiparava sostanzialmente il lavoro dell’artista alla funzione cosmologica del demiurgo platonico, ponte di mediazione fra l’Iperuranio, il mondo delle idee, e la realtà terrena. Dunque la forma nella sua purezza eterna e cristallina assurgeva ad oggetto venerabile, indiscutibile, vero e proprio idolo, come testimonia l’etimologia stessa della parola (eídōlon deriva da eîdos). E in questo solco tutta la storia dell’arte di derivazione classica si è mossa, da Fidia a Michelangelo, fino a Picasso, che Giulio Carlo Argan collocava lungo stessa linea evolutiva concettuale, considerandolo uno

dei più grandi innovatori della forma, secondo solo al grande artista fiorentino. Dopo l’interesse del cubismo

alla scomposizione/ricomposizione della forma, saranno in particolare il dadaismo e il surrealismo, seppure secondo indirizzi poetici diversi, a destrutturarne in maniera poderosa i canoni consueti. Tuttavia le opere scultorie di questi artisti interverranno a stravolgere le forme senza mai però rinunciare alla forma in senso stretto, intesa come oggettualità ineludibile e irrinunciabile dell’espressione artistica, senza la quale l’Opera non si dà come tale. A farne il tema di una rivisitazione critica del suo senso ontologico, della sua la struttura profonda, sarà invece Alexander Calder. I suoi Mobiles, opere cinetiche che mutano il proprio assetto plastico nello spazio e nel tempo, costituiscono a tutti gli effetti un superamento della consistenza, corporeità e fissità dell’opera, anche nella sua nuova accezione novecentesca, tanto da costituire un unicum, pure per il panorama artistico contemporaneo, che solo slabbrando molto la definizione possiamo etichettare come sculture.

Il crinale esplorato da Calder fra opera e ambiente, struttura e spazio, ma anche fra forma e vuoto si fa, per alcuni aspetti, ancora più ardito nella ricerca artistica di Giuseppe Guanci, che si situa all’incrocio tra architettura, tessitura, scultura e Śūnyatā, la “vacuità” zen. Attratto da questa dottrina buddista, l’agire di Guanci (architetto e dunque interessato alla riflessione sui volumi) intende problematizzare in maniera radicale l’eidos che nella tradizione occidentale è assurto al rango di idolo, ma anche di monito, a segnare un limite oltre il quale l’arte esplora un territorio ignoto in cui si fa evanescente, svanisce nel concettualismo puro, tanto immateriale quanto indeterminato, fino alla dissolvenza nel nulla. Che questa sia la sua frontiera elettiva lo dimostra anche il suo iter creativo, dall’ispirazione alla realizzazione. In principio infatti Guanci parte dallo scarabocchio, dal suo gesto compulsivo con cui l’iterazione del segno sulla carta non disegna

ma evoca, non definisce ma suggerisce. Ne scaturisce una forma, che definiamo tale solo per comodità, ma

lo è unicamente sui generis, o comunque a posteriori, in quanto costituisce un groviglio di segni che richiede

necessariamente l’occhio ordinatore per abbandonare il proprio caos o entropia, e finire in una casella della

mente, o archetipo che dir si voglia. Già a questo stadio l’autore sperimenta una prima apertura dell’opera,

nell’accezione di Eco, ovvero verifica fino a che punto, continuando a scarabocchiare in maniera automatica

sul foglio, il disegno conserva/regge la sua denotazione figurativa senza diluirsi in una congerie di segni insignificanti.

Lo stesso procedimento casuale si riproduce poi quando Guanci passa alla fase realizzativa delle sue

“tessoforme” o “tessostrutture”, come le chiama lui. Il sottile filo di rame guizza, corre , s’intreccia, portato dalla mano che cuce senza conducere, senza imposizione forzosa, quasi lasciandosi guidare dalle sue rigidità, dalle sue resistenze, dalle sua natura metallica e flessuosa, secondo logiche puramente stocastiche. Il groviglio di segni neri sulla carta si trasforma così in una maglia ramata, ingarbugliata e rada come un fitto rovo metallico, che al pari dello scarabocchio d’origine si aggroviglia nello spazio fino rammentare una parvenza filamentosa, capace di accogliere, allo sguardo, l’idea di una figura, che può essere un semplice frutto fino al più complesso corpo umano. Come rileva lo stesso Guanci questa procedura costruttiva, in antitesi totale alla scultura tradizionale che agisce su un pieno sottraendo o aggiungendo materia, opera invece su un vuoto, che con un’espressione quasi ossimorica, a sottolinearne l’aspetto paradossale,

potremmo definire anche “volume aereo”. Infatti le figurazioni delle “Tessoforme” di Guanci rappresentano

sempre il punto di un precario equilibrio, o meglio compromesso, nella tensione fra forma e vuoto, che non

si risolve mai, se non momentaneamente e a seconda dell’angolazione di osservazione, proprio in virtù dell’espediente costruttivo della maglia ampia e aleatoria che permettendo il dialogo continuo fra interno ed esterno ridefinisce costantemente la presunzione di forma dell’opera, come la sua vuotezza. Per la stessa ragione la tramatura esteriore acquisisce trasparenza, prestandosi ad infiniti giochi di intreccio e sovrapposizione spaziale, che legano le “Tessoforme” all’ambiente circostante, contribuendo ulteriormente alla loro smaterializzazione plastica e allo loro mobilità percettiva nella luce.

Altrettanto significativo è rilevare nelle opere di Guanci la perfetta sintonia fra questa ricerca di tipo formale e

l’aspetto contenutistico, che lo stesso nome delle sculture richiama (“Tessoforme” potrebbe essere perifrasato in “forme di tessuto”). Diventa infatti un tema di assoluta centralità l’idea che l’amalgama aleatoria di fili di rame possa essere ricondotta al concetto di tessuto, sebbene di un tipo assolutamente eccezionale. Con questo chiaro riferimento metaforico, le opere di Guanci si agganciano all’epopea tessile della città laniera e al suo prodotto totemico, arricchendone ulteriormente la suggestione del suo potere creativo, in grado, in questo caso, di attuare la mediazione più mirabolante, fra forma e vuoto, e al contempo di dare vita a figure aeree di grande impatto.

Nell’associazione al tessuto è forte la tentazione di riscontrarvi la volontà oppure il desiderio profondo di

annettere alle “Tessoforme” una dimensione di rinascita, un’autentica palingenesi, che dall’arte si possa trasmettere alla realtà dell’intera città, per mezzo di una nuova sintesi, una nuova strada, che tutti ritengono assurda o impossibile. Le Tessoforme sarebbero dunque quelle particolari creazioni di tessuto di rame capaci, per qualche insondabile alchimia magica, di far rigenerare la creatività e produttività pratesi.

La ricerca artistica di Giuseppe Guanci seppure iniziata da tempo è entrata adesso nel cono di luce di una piena consapevolezza. Rimane tuttavia una sfida difficile, audace, giocata sul filo di un paradosso, di un tabù millenario.

Impervia quanto affascinate. Il tentativo di superare l’aporia fra forma e vuoto racchiude dentro sé un desiderio di profondo rinnovamento che esige però un percorso lungo e impegnativo affinché i suoi semi possano dar vita a frutti estetici all’altezza del cimento intrapreso. Nella loro sicura pregnanza le Tessoforme presenti in questa mostra ci consegnano già oggi una traiettoria artistica promettente, foriera di inedite potenzialità che Guanci può condurre alla loro compiuta realizzazione. Occorre guardarle con gli occhi del futuro, come faremmo con dei germogli. Germogli di quel demiurgo terreno che in virtù del suo pensare e del suo fare possiamo già chiamare “lo scultore del vuoto”.

Jacopo Nesti


L’insostenibile leggerezza delle tessoforme

DI Giulia Ballerini

Non tutti conoscono il lato creativo di Giuseppe Guanci, quella parte, lontana dalla razionalità dell’architetto, che lo spinge a realizzare opere d’arte; nel suo dualismo (come lo yin e lo yang) ci regala delle sculture che non sono però sculture, del tutto particolari. Solitamente quando si parla di scultura si associano le opere alla materia, solida e pesante.

Le opere di Giuseppe invece sono aeree, leggere, trasparenti. Guardandole, mi è venuto in mente l’operazione, anche concettuale, di Lucio Fontana, che con i suoi tagli netti e decisi riuscì a portare la tridimensionalità nello spazio bidimensionale della tela; le creazioni di Guanci, come un fitto tessuto reticolato, non possono dirsi vuote, perché il vuoto che trapassa la superficie ed è racchiuso là, all’interno della forma stessa, è sì leggero

ed è aria, ma appare come un pieno, nella lotta, dura e paziente, che Giuseppe ha vinto, con sacrificio anche, contro il vuoto e la materia. Questa materia, piegata dal suo volere, è il filo di rame, duttile, sottile, cangiante e ossidabile, trasformabile nel tempo, dunque. L’artista trasforma kilometri di filo di rame in incredibili e affascinanti tesso-forme.


Lo zen e l'arte dei fili di rame
le sculture di Giuseppe Guanci

Di Paolo Russo da La Repubblica 05 aprile 2013

Nella sua lunga ricerca di artista e architetto il pratese Giuseppe Guanci ha finito per lavorare intorno a un’idea ritenuta, in Occidente, irrapresentabile: il vuoto, dai tempi di Platone un tabù della nostra cultura. Retaggio della sua frequentazione delle arti marziali e del pensiero ad esse legato, in particolare lo zen, e del pensiero scientifico contemporaneo, della sua inclinazione a una pratica compulsiva del disegno, che finisce per assumere il profilo di una trance da cui sgorga una scrittura automatica che nulla cerca di preciso e finisce però per far affiorare comunque una forma. Altra categoria alla quali Guanci si dedica da decenni anche in virtù della sua professione d’architetto. La sua nuova mostra, Tessoforme, presenta, dal 6 al 20 aprile, nei begli spazi dell’ex chiesa di san Giovanni, vicino al Castello dell’Imperatore a Prato (via san Giovanni 9, martedì-sabato ore 15-19, gratis) gli esiti più recenti della ricerca che Guanci conduce fin dai primi anni Ottanta. E che, con ripetute, lunghe pause - dettate dalla onestissima ammissione di non avere, in quei periodi, nulla da dire - arriva all’oggi. Un presente in cui la sua elaborazione si è distillata e coagulata con aerea, concreta trasparenza intorno all’idea, come si diceva, di vuoto: un vuoto labirinticamente avvolto in sculture di filo di rame - talvolta di ottone, argento o salice, altre di rete metallica - che traducono in forme tridimensionali la fitta, densa trama del disegno compulsivo di cui si è detto.



Quindici le opere in mostra, due del '95 e le restanti dal 2008 ad oggi. Lavori in cui è immediatamente leggibile una ritualità gestuale paziente e attentissima, ripetuta per infinite e infinitesimali variazioni che poeticamente modulano il sottilissimo filo di rame in figure che ridanno alla congerie di segni originari tracciati sulla carta un senso che ci mette in contatto con esse, presentandosi ora come figure umane, ora come animali o frutta (in specie la mela che è per Guanci una sorta d’archetipo). Un compromesso quindi nella tensione fra il vuoto che avvolge, e pardossalmente riempie, le sculture e il pieno cui paiono alludere. Un dialogo ininterrotto fra interno ed esterno che rende questi inediti lavri opere aperte, secondo la definizione di Eco, trasparenti e leggibili in infiniti modi, come se dissolvessero la materia di cui son fatte nella trama che le costituisce, mentre si offrono in una costante mutazione, ad esempio, in virtù del tipo di luce che le attraversa e al punto di vista dell’osservatore. Allo stesso tempo, come suggerisce il titolo, Tessoforme, e come legittimano gli studi di archeologia industriale di Guanci, e la sua stessa appartenenza pratese, l’artista volge il suo sguardo alla città e alla sua storia socio-economica, della quale il presente sta scrivendo le pagine forse più difficili del dopo guerra.


Perché la trama labirintica di filo di rame approntata da Guanci ha natura tessile, flessibile, adattabile, profondamente superficiale, traspirante e trasparente, soggetta, come un Mobile di Calder o un tessuto, a mutazioni statiche, imprevedibili ma certamente desiderate dall’autore, anche a opera finita. Ed incarna in questo, specie in Guarda la luna, la più grande delle sculture esposte, costata all’artista 600 ore di lavoro in certosina, rituale «trance», il sogno e la creatività di quella nuova frontiera produttiva di cui Guanci ha spesso parlato con l’amico Valdemaro Beccaglia, l’industriale del tessile e presidente del Centro Pecci scomparso un anno fa, ed al quale la mostra è dedicata. Non a caso l’opera, il cui titolo viene da un pensiero zen («Quando il saggio indica la luna lo sciocco guarda il dito»), era nata per la sua fabbrica in Val Bisenzio, a suggerire quel connubio fra arte e lavoro, creazione e produzione, che sempre più pare una strada da battere per uscire dal morso di una crisi che non è certo più possibile insistere a ridurre ad una natura solo economica.


Incontro con Giuseppe Guanci presso il Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci - Prato

Atmosfera particolarmente suggestiva quella che Giuseppe Guanci riesce a creare durante la sua serata già dall'ingresso del pubblico che arriva in sala attraversando una "tenda" costituita da fili di rame. La coreografia di due danzatrici orientali c'introduce alle tematiche care all'artista mentre la luce diretta su una sua opera ne  proietta l' ombra sulla parete. Nella morbidezza delle forme, nella lentezza dei movimenti, nella complementarità del bianco ed il nero, nell'armonia dell'insieme si articola il pensiero e la ricerca di Guanci pensiero e ricerca dei quali l'arte, con le sue creazioni, è la parte più evidente ma non la sola. Osservando l'opera presente in sala "guarda la luna" e quelle proiettate, se ne percepisce il respiro,  forme e dimensioni sono evidenti ed a volte importanti ma il materiale usato (fili di rame)  conferiscono leggerezza e trasparenza ad ogni creazione dell'artista.

L'opera assume l'aspetto di scultura ma non la sua pesantezza, Guanci intreccia ed annoda i suoi fili di rame e l'opera prende forma, occupa un suo spazio ma non lo annulla e la luce che l'attraversa ce lo conferma. L'artista chiama le sue opere "tessoforme" forse un omaggio alla sua Prato che deve alla tessitura la sua fortuna e che affonda le radici nel passato, non è un caso che il Guanci sia appassionato studioso di "archeologia industriale" ed abbia collaborato a progetti  di riutilizzo di strutture produttive dismesse. Anche in questo caso si tratta di riempire e recuperare un vuoto che non significa assenza perchè conserva una sua memoria legata all'operare umano.

L'assenza e la presenza, il pieno ed il vuoto, il positivo ed il negativo sono entrambi parte di un'unica realtà in continua evoluzione e trasformazione; le dimensioni e la consistenza, sconfinano,  si intersecano, diventano complementari, annullando la scala dei valori alla quale siamo abituati. Eliminata la predominanza dell'una dimensione sull'altra diventano entrambe necessarie all'uomo ed alla sua armonica crescita come recitano i versi della Sutra de cuore della Perfezione e della Saggezza: "La forma è vuoto ed il vuoto è forma" .

Luciana Schinco